Domanda:
urgentissimo!!!!!!!!!!!!!!!!!! riassunto di un libro!!!!
anonymous
2008-08-11 16:49:32 UTC
riassunto del libro"gioventù e crisi d'identità" di erikson!!! grazie milleeeee in anticipo!!!!
Cinque risposte:
Nespola
2008-08-11 17:01:39 UTC
Ma come si fa a riassumere un libro di psicologia?

La caratteristica della materia stessa ti dice che va capito, va fatto proprio, un riassunto non significa nulla.

Non è mica un romanzo!
davidemilano1
2008-08-11 17:05:55 UTC
Ecco qua :





E.H. Erikson

"GIOVENTU' E CRISI D' IDENTITÀ"



Pubblicato nel 1967 questo libro condensa 20 anni di studi e di ricerche sul tema dell’identità e segue, nella tematica affrontata, "Infanzia e Società" pubblicato nel 1950.

L'autore cita fin dalle prime righe quale fu il suo maggior Maestro: Paul Federn con i suoi studi centrati particolarmente, in quegli anni, sui "confini dell’ego”.

Nel 1° capitolo "Identità e crisi d'identità" l'autore delinea la storia del concetto di identità, a partire dalla metà degli anni '40, quando questo termine iniziò a essere utilizzato nel senso specifico che Erikson intende. Egli dice che l'uso che ne è stato fatto è piuttosto vasto e che vale la pena determinare in modo più definitivo quello che è identità e quello che non lo è.

Parimenti, quando si parla di crisi di identità, le ottiche dalle quali si guarda e i soggetti cui questo concetto viene riferito, sono i più vari. L'autore, infatti, si pone come campo d'indagine di elezione non tanto, o almeno non qui, lo studio della psiche del singolo individuo, ma abbraccia a tutto campo l'indagine propria della psicologia sociale.

Così, il termine "crisi", egli dice, non denota più una catastrofe impellente, ma designa una svolta necessaria, un momento cruciale in cui lo sviluppo deve procedere in un senso o nell'altro, servendosi delle risorse di crescita e di ulteriore differenziazione. Ciò è applicabile a diverse situazioni: a una crisi di sviluppo individuale, nella comparsa di una nuova élite, nella terapia di un individuo, nelle tensioni provocate da rapidi mutamenti storici.

In riferimento, quindi, all'origine clinica di questi termini, dobbiamo collegare gli "aspetti patologici" e quelli "evolutivi" della questione e determinare ciò che potrebbe differenziare le crisi d'identità tipica della storia di un caso da quella di una vita.

In questi anni '50 '60 molti termini clinici sono stati adottati non solo dai diagnosti ma anche dai diagnosticati: da tutto un settore giovanile, per esempio, che riecheggia tutti i nostri termini e che mette chiassosamente in mostra dei conflitti, che una volta erano silenziosi, inconsci.

Il senso d'identità potrebbe essere definito “un senso soggettivo di una rinfrancante coerenza e continuità”.

Se vogliamo meglio precisare alcune dimensioni dell’identità dobbiamo affrontare un problema generale e difficile da afferrare: abbiamo a che fare, infatti, con un processo "situato" al "centro dell'individuo" ed anche al “centro della sua cultura comunitaria”, insomma, un processo che stabilisca l’identità di quelle due identità.

La formazione di identità si serve di un simultaneo processo di riflessione ed osservazione, un processo che si svolge a tutti i livelli delle funzioni mentali in base alle quali l'individuo si giudica alla luce del modo con cui egli percepisce di essere giudicato dagli altri, in rapporto a una tipologia per loro importante.

In altre parole Erikson ripete il concetto più sopra espresso per cui un presupposto metodologico per capire l'identità è una psicoanalisi tanto sofisticata da includere l'ambiente. Un altro presupposto potrebbe essere una psicologia sociale psicoanaliticamente sofisticata.

L'attenzione, allora, va anche alle guerre tra nazioni che ci sono state in quei decenni, alle rivoluzioni politiche, alle ribellioni morali che hanno sconvolto alle fondamenta le tradizioni di ogni identità umana. E ciò riporta all'immagine negativa presentata ad una minoranza dalla "maggioranza compatta". A livello del singolo, succede allora spesso che l'individuo creativo si veda costretto ad accettare l'identità negativa come linea di condotta per la propria liberazione.

Ed Erikson osserva la gioventù del suo tempo e viene colpito dal settore più pittoresco, come lui lo definisce, di quella generazione, e cioè di quella esacerbata "coscienza di identità" che sembra buttare all'aria non solo la definizione: identità positiva e negativa, ma anche i presupposti sul comportamento manifesto e latente dei processi consci e inconsci.

Se 20 anni prima tanti giovani erano preda a un inconscio conflitto d’identità, oggi, dice l'autore, un certo folto tipo di giovani verbalizza senza mezzi termini, mettendo drammaticamente in mostra quelli che una volta venivano considerati degli intimi segreti, che sì, è vero, sono in preda ad un conflitto d'identità. Confusione d'identità sessuale? Si, certamente. Identità negativa? Ma sì. Questi giovani pare vogliano essere tutto quello che "la società" dice loro di non essere. Ma in questo, almeno, sono "conformisti".

Ma che il conformismo sia, a sua volta, un bisogno di fraterno riconoscimento e quindi acquisti un nuovo carattere ritualizzato, questo fa parte del paradosso rappresentato da qualsiasi formazione di identità di carattere ribelle.

Spesso l'atteggiamento di questi adolescenti sembra voler dire “chi dice che noi soffriamo di una crisi di identità? Noi l'abbiamo scelta, la percepiamo attivamente, ci divertiamo a "farla capitare".

Lo stesso dicasi circa l'accettazione di altri temi che in passato erano latenti e soprattutto circa l'ambivalenza innata delle generazioni. Mentre, infatti, una volta tentavamo cautamente di dimostrare ai giovani sensibili che essi nutrivano anche odio per i genitori, essi ora vengono da noi con una ripulsa apertamente cattiva o indifferente verso tutti i genitori e noi abbiamo difficoltà a provar loro che vogliono anche bene ai genitori. E mentre noi lo diciamo, molti lo sanno già. Forse questa è una nuova e più aperta forma di adattamento alla chiarificazione psichiatrica, che nel passato aveva usato forme apparentemente meno pericolose, perché in gran parte verbali.

Infatti, dai primi tempi freudiani in poi, le persone illuminate si sono adeguate agli "insight" di Freud, dando un nome alle loro nevrosi tenendosi tuttavia anche le nevrosi.

Questo gioco, in effetti, avrebbe potuto essere più pericoloso in passato. Se dovessimo scrivere una storia dell'isteria, troveremmo certamente che i desideri sessuali, repressi fino a quando l'isteria dominava il mercato psicopatologico, sono venuti apertamente e vigorosamente alla luce come conseguenza della chiarificazione psicologica: i sintomi isterici diminuivano e li rimpiazzavano problemi caratteriali. Quello che ai tempi di Freud era quindi un'epidemiologia nevrotica con implicazioni sociali si e trasformata, ai tempi nostri, in una serie di movimenti sociali con implicazioni nevrotiche che hanno almeno il vantaggio di esporre molti problemi occulti all'osservazione compiuta e forse alla padronanza da parte di una giovane generazione desiderosa di sviluppare la propria morale ed il proprio tipo di vitalità, dopo aver ormai moralmente rifiutato i genitori.

Sempre in riferimento alle crisi proprie dell’età adolescenziale, tanti ragazzi ne sono affetti più manifestamente perché sanno che si pretende che lo siano. Ma la nostra vigilanza clinica non deve conoscere tregua, comunque la crisi si manifesti: in un andazzo alla moda o in condizioni psicotiche, in comportamenti delinquenziali o in moti fanatici, in sfoghi creativi o anche in uno stravagante impegno sociale.

Quando veniamo consultati, possiamo soltanto tentare di valutare la forza dell'ego dell'individuo, cercando di diagnosticare fino a che punto i suoi stereotipi conflittuali infantili determinano ancora il suo comportamento e quali siano le possibilità che egli ritrovi se stesso perdendosi in qualche interessante problema sociale.

Ma dobbiamo rammentare, dice Erikson, che la formazione dell’identità, pur attraverso una sua fase "critica" in gioventù è in realtà una "questione di generazioni". E non dev'essere trascurato quello che appare come un rifiuto di responsabilità da parte della generazione più anziana, di presentare ideali, che debbono precedere la formazione di identità nella prossima generazione se non altro perché la gioventù sia in grado di ribellarsi contro una serie ben definita di valori più antichi.

E non dobbiamo trascurare che la gioventù si vede rispecchiata nei "media". Ed i "media" badiamo bene non si contentano di fare da intermediari di comunicazioni; con efficiente insolenza si proclamano mediatori tra le generazioni.

Ma l'autore si pone anche il problema di studiare almeno alcune delle principali fonti di “identità del suo tempo" per giungere a tracciare le possibili linee di un "avvenire preconizzabile".

Per tentare di fare questo non basta funzionare da clinici per giungere a chiarire il passato. Lo studio passa, allora, attraverso quelli che sono i residui di una forza di identità; residui economici, religiosi o politici, regionali o nazionali. Quindi si vanno tutti alleando con le prospettive ideologiche, in cui la visione di un progresso tecnologico non solo previsto, ma programmato, si accollerà in buona parte la tradizione.

Definire queste prospettive come "ideologiche” vuol indicare il bisogno psicologico universale di un sistema di idee che fornisca una convincente immagine del mondo. L'ideologia crescente nella maggioranza dei giovani rappresenta il prodotto dell’età della macchina. E tanti ragazzi si trovano perfettamente a loro agio nel vivere vicini alle correnti tecnologiche e ai metodi scientifici del nostro tempo.

Se ciò è vero, bisogna allora sfatare la leggenda che in una cultura mercantile o agricola l'uomo fosse in linea di massima meno "alienato" di quanto non sia in quella tecnologica. E' il nostro romanticismo retrospettivo che ci induce a supporre che i contadini o i mercanti o i cacciatori fossero meno condizionati dalle loro tecniche. In altre parole: in ogni tecnologia e in ogni periodo storico vi sono tipi di individui che, allenati “come si deve" riescono ad abbinare la tecnica dominante con lo sviluppo della propria identità e ad "immedesimarsi" con quello che "fanno”.

Ai tempi in cui Erikson ha scritto questo libro era diffusa la convinzione che dovunque le "macchine" minacciassero di stritolare la volontà umana.

La ribellione nei confronti di questa visione del progresso, unitamente ad altre spinte, così come in epoche rivoluzionarie, fa si che gli avvantaggiati e gli svantaggiati spesso si aiutino a vicenda, perché sono sia gli uni che gli altri elementi marginali del vasto consolidamento rappresentato dalla "maggioranza compatta". I più maturi dei giovani umanisti vanno alla ricerca di un comune denominatore della vita umana una specie di identità mondiale che riesca a livellare ricchezza e sottosviluppo. Per alcuni che altrimenti si sarebbero ribellati senza scopo o si sarebbero chiusi in se stessi, la possibilità di utilizzare il loro conflitto in un movimento socialmente utile ed ottimista, ha indubbiamente un potenziale valore terapeutico. Il grado, poi, di valore terapeutico nonché politico di tutti questi gruppi si fonda però sulla vitalità del loro potenziale comune, sulla disciplina e sull'inventiva dei capi.

La gamma di queste proteste vanno da una reazionaria resistenza ad ogni tipo di .conformismo basato sulla macchina ad una nuova formulazione dei diritti e della dignità umana in un irreversibile avvenire tecnologico.

Quando poi gli anziani dovessero, come spesso accade, abdicare al loro ruolo vitale di critici, senza una guida, alla quale magari opporsi, i giovani umanisti corrono il rischio di perdere importanza e di rimanere soffocati in una "espansione di consapevolezza” puramente episodica.

Di recente, la semplice separazione tra una generazione più vecchia ed una più giovane appare sorpassata. A causa del rapido mutamento tecnologico, qualsiasi modo tradizionale d'invecchiare non può più essere istituzionalizzato al punto da permettere alla giovane generazione di accettare senz'altro il cambiamento o magari di resistervi in maniera rivoluzionaria.

Ma, a questo punto, le ripristinate forme di umanesimo liberatorio non bastano più. I loro primi fautori, non sapevano nulla infatti dei due oggetti: la gigantesca bomba e la minuscola pillola, se non danno all'uomo il dominio sulla vita e sulla morte, certamente gli danno la possibilità di decidere a chi toccherà la vita e la morte.

Se facciamo ora un breve riferimento alle origini dell’umanità, c’è da dire che l'uomo come specie è sopravvissuto alla suddivisione in quello che l'autore chiama "pseudospecie"

Egli vuol dire, cioè, che ogni orda o ogni tribù, ogni classe e ogni nazione, ma, più tardi, anche ogni associazione religiosa è diventata la specie umana per antonomasia, considerando tutte le altre come un'invenzione ridicola e superflua.

Non si sapeva mai esattamente come fossero sorte tutte le altre tribù, ma poiché esistevano, erano utili se non altro come schermo per proiettarvi le identità negative. Tale proiezione, insieme con l'elemento di territorialità, offrì agli uomini la scusa di ammazzarsi a vicenda “ad majorem Dei gloriam".

Se dobbiamo riflettere sull'identità, prendiamo anche atto che due guerre mondiali hanno dimostrato che una glorificazione delle pseudospecie può significare la fine della specie, mentre un’identità umana che abbracci tutto deve rientrare nell'ambito di una prevista tecnologia universale.

E' questa previsione che potrà accomunare parte della maggioranza e parte della minoranza dei giovani in un unico universo. Ma così tutte le altre identità più antiche saranno esposte ad un pericolo mortale. Uomini "carichi di pregiudizi" dovunque si trovino, combatteranno forse una micidiale battaglia di retroguardia. E nazioni in ascesa o perfino antiche nazioni messe in pericolo dalle loro "giovanili" identità nazionali potrebbero benissimo ritardare e mettere in pericolo un’identità che abbracci tutto il mondo.

Soltanto una morale adulta può garantire alla prossima generazione la stessa possibilità di sperimentare il pieno ciclo della sua umanità.





Nel 2° capitolo "Osservazioni fondamentali” l'autore esplora il modo con cui le forme sociali condeterminano la struttura della famiglia e cita fin dall'inizio Freud, per il quale ciò che opera nel Super-Io dei genitori non sono solo le loro qualità personali, ma anche tutto ciò che ha avuto un effetto determinante su di loro, sui gusti e sulle norme della classe in cui vivono, nonché sulle caratteristiche e tradizioni della razza da cui provengono. Inoltre, che la vita sociale incomincia ai primordi della vita di ogni individuo. E che, ad esempio, nelle società primitive il modo di organizzare l'esperienza (cioè identità di gruppo) viene trasmessa alle prime esperienze corporee del neonato e, attraverso di esse, ai primordi del suo ego. Nei residui d'identità degli Indiani Sioux, per fare un esempio specifico, il passato preistorico è una importante realtà psicologica, come l'autore illustra dettagliatamente in "Infanzia e Società".

Mentre, se vogliamo fare solo un parallelo tra quella civiltà e la nostra attuale, vediamo che nei primitivi gli uomini hanno un rapporto diretto con le fonti e i mezzi di produzione. I loro strumenti sono estensioni del corpo umano. L'elenco dei prototipi sociali è breve e statico. Nel nostro mondo le macchine, invece, lungi dal rimanere un'estensione del corpo, condannano tutte le organizzazioni umane ad essere estensioni di macchinari.

Volendo riferirci ora al nuovo lavoro di psicoanalisti, vediamo che noi veniamo consultati soprattutto da coloro che non riescono a sopportare la tensione tra le alternative, contrasti e le polarizzazioni insite nella vita odierna: cioè la costante necessita di rimanere nell'incerto, per essere sempre pronti ad afferrare occasioni più importanti e migliori. Nei transfert e nelle resistenze i pazienti ripetono i falliti tentativi di sincronizzare i residui, in via di rapido mutamento e fortemente contrastanti, delle identità nazionali, regionali e di classe sperimentate durante le fasi critiche dell'infanzia. L'analista viene così incorporato nella vita inconscia del paziente; è idealizzato e paragonato agli avi più omogenei del paziente, oppure viene respinto come perspicace nemico di un’identità potenzialmente coronata da successo.

Il paziente, tuttavia, può acquistare il coraggio di affrontare le inconsistenze della vita e le polarizzazioni destinate a crearsi un’identità economica e culturale non come una identità ostile ed imposta, ma come potenziale promessa di un'identità umana più universale. Questo, però, incontra le sue limitazioni quando gli individui siano stati fondamentalmente impoveriti nella loro sensualità infantile o quando il "sistema" li ostacoli nella libertà di avvalersi di occasioni profferte.

Ripartendo da Freud nel considerare quali sono le fonti dell'autostima e tenendo sempre d'occhio i collegamenti con i processi sociali, Erikson ricorda che tutto parte dal residuo del narcisismo infantile. Poi da quel tarlo di onnipotenza infantile corroborata dall'esperienza, che dà al bambino la sensazione di soddisfare l'ideale del suo Io. Infine la gratificazione della libido oggettuale, cioè l'amore degli altri.

Ma se si vuole che il “narcisismo" infantile sopravviva, l'ambiente materno deve crearlo e sostenerlo con un amore che assicuri il bambino che è bello vivere nelle coordinate sociali in cui gli capita di trovarsi. Il narcisismo "naturale” che sembra lottare così vigorosamente contro l'invasione di un ambiente frustrante, si esprime in effetti nell'arricchimento sensuale e nell'incoraggiamento a dedicarsi ai compiti offerti dallo stesso ambiente. Un diffuso e grave impoverimento del narcisismo infantile, d'altra parte, deve essere considerato come un fallimento di quella sintesi collettiva che dà a ogni neonato ed al suo ambiente materno lo status superindividuale di affidamento alla comunità. E più tardi, durante l'inserimento di questo narcisismo in un più maturo senso di autostima, è ancora una volta d'importanza decisiva che l'adolescente possa o non possa avere la prospettiva di mettere a frutto quello che ha appreso nell'infanzia ed acquistare così il senso di un continuo significato in seno alla comunità.

Se poi l'esperienza è destinata a corroborare la parte sana del "senso di onnipotenza” infantile, i metodi educativi debbono favorire non soltanto una sensualità ben sviluppata e la graduale padronanza delle cose, ma offrire. anche un tangibile riconoscimento sociale come frutti di questo sviluppo e di questa padronanza. Infatti, a differenza del senso infantile di onnipotenza, nutrito di finzioni e di inganni da parte degli adulti, l'autostima che contribuisce ad un senso identità si fonda sui rudimenti di esercizi e tecniche sociali che assicurano una graduale coincidenza di gioco ed esecuzione ingegnosa, di ideale dell'Io e funzione sociale e con ciò la promessa di un avvenire tangibile.

Se si vuol soddisfare la “libido oggettuale” si deve assicurare all'amore genitale ed alla potenza orgastica uno stile culturale di sicurezza economica ed emozionale perché soltanto questa sintesi dà un significato univoco al pieno ciclo funzionale di genitalità, che include concepimento, gravidanza e educazione del bambino. L’attività genitale può aiutare a sentirsi l'uno dell'altro come ancore contro la regressione. Ma l'amore genitale reciproco guarda all'avvenire e alla comunità. Si prepara alla divisione del lavoro in quel compito vitale che soltanto due individui di sesso diverso possono compiere insieme, cioè alla sintesi di produzione, procreazione e ricreazione nella primitiva unità sociale di un sistema familiare.

Quando le identità dell'ego di coppie amanti si completano in alcuni elementi essenziali esse possono fondersi a beneficio dell'ego della progenie. Dal punto di vita di queste identità congiunte, l'attaccamento “incestuoso” alle immagini parentali non deve essere considerato necessariamente patogenico. Al contrario, questo orientamento fa parte di un meccanismo etnico, in quanto crea una continuità tra la famiglia nella quale si è cresciuti e la famiglia che si fonda, perpetuando cosi la tradizione, cioè la somma di tutto ciò che è stato appreso dalle generazioni precedenti, in un'analogia sociale con il mantenimento dei progressi dell'evoluzione nell’accoppiamento entro la specie. La fissazione nevrotica sui genitori, comunque, e la rigida difesa interiore contro desideri incestuosi sono segno di fallimento e non di un processo naturale di affinità tra generazioni

Tuttavia molti meccanismi di adattamento che una volta favorivano l'evoluzione psicosociale, l'integrazione tribale e la coerenza nazionale o di classe appaiono incerti in un mondo di identità in via di universale espansione.

L'educazione di una identità dell'ego che acquista forza dalle mutevoli circostanze storiche richiede un'accettazione cosciente di eterogeneità storica da parte degli adulti, unita a un intelligente sforzo di procurare ai bambini una nuova base di significativa continuità.

A parere, poi, dell'autore, la ricerca psicoanalitica potrebbe contribuire a ideare nuovi metodi per studiare non solo i bambini, ma anche i modi spontanei con i quali alcuni settori della società moderna tentano, in condizioni tecnologiche sempre mutevoli, di creare una continuità agibile tra educazione del bambino e sviluppo storico, perché chi deve curare o guidare deve comprendere, concettualizzare e servirsi di filoni spontanei di formazione di identità.

In un altro passo di questo 2° capitolo, l'autore si pone il problema di cosa vi sia ancora da comprendere in quel particolare momento, o meglio, in quella data fase che si frappone tra funzionamento maniacale e funzionamento depressivo. Erikson parla di un momentaneo stato di calma sul campo di battaglia dell'Io, dove il Super-Io è in fase di non belligeranza e l'Es ha accettato l'armistizio.

Esemplificando clinicamente, l'autore scrive una pagina magistrale esponendo le sue ricerche sulla vita sui sottomarini.

Egli, giustamente, sostiene che la plasticità emozionale e la ricchezza di risorse sociali dell'equipaggio sono messe a dura prova. Le aspettative eroiche e le fantasie fallico locomotorie con cui un giovane volontario accede al servizio sul sottomarino generalmente non si realizzano nei modesti compiti e nell’angusto spazio della sua esperienza quotidiana a bordo e nel ruolo quasi da cieco e sordomuto che gli si richiede al momento dell'azione.

L'estrema interdipendenza dell'equipaggio e la reciproca responsabilità di comodità e di vita in una prolungata condizione di estremo disagio ben presto si sostituiscono alle fantasie originarie. L'equipaggio e il capitano istituiscono una simbiosi fondata non soltanto sulle disposizioni ufficiali. Con tatto sorprendente e con innata saggezza, vengono silenziosamente stabilite certe norme per le quali il capitano diventa l'apparato sensorio, il cervello e la coscienza di tutto il sommerso organismo di macchinario e di umanità minutamente sintonizzati: i membri dell'equipaggio mobilitano cosi in se stessi alcuni meccanismi compensatori (come ad esempio l'uso collettivo del cibo abbondantemente fornito) e riescono a sopportare la monotonia del servizio, pur mantenendosi pronti ad un'azione improvvisa. Questi reciproci adattamenti automatici ad ambienti inusitati sembrano dapprima possedere "un senso psicoanalitico" in cui si riesce a rintracciare un'apparente regressione all'orda primitiva e ad un tipo di letargia orale. Spesso, infatti, intere unità, equipaggi e gruppi occupazionali sono originariamente motivati da latenti tendenze omosessuali o psicopatiche: si sa che individui sospetti di omosessualità sono stati spesso pesantemente scherniti e trattati con estrema crudeltà dagli equipaggi. Ma se ci domandiamo perché gli uomini scelgono quella vita, nonostante l'incredibile monotonia e talvolta l'allucinante pericolo e soprattutto perché funzionino in buona salute, buon umore e talvolta con eroismo, non sappiamo darci, dice l'Autore, una risposta dinamica soddisfacente.

Quello che il marinaio nel sottomarino, l'Indiano al lavoro e il bambino in fase di sviluppo hanno in comune con tutti coloro che si sentono all’unisono con quello che fanno quando e dove lo fanno, si avvicina a quello "stadio intermedio" che vorremmo che tutti conservassero e che i nostri pazienti riacquistassero. Quando questo stadio è raggiunto, il gioco diventa più inventivo, la salute più brillante, la sessualità più libera, il lavoro più significativo.

Ci occorrono ancora concetti che chiariscano la “reciproca complementarietà” della sintesi dell'ego e dell'organizzazione sociale, il cui perfezionamento a livelli sempre più elevati è l'obiettivo di ogni trattamento terapeutico e di ogni attività sociale e individuale.

Erikson, poi, parte dall'esame di casi clinici Per giungere a formulare concetti psicologici calati nel sociologico e viceversa.

Così egli conclude che ambigue sono le grette apprensioni socioeconomiche e culturali che coinvolgono la famiglia, dando origine a regressioni individuali verso espiazioni e a un ritorno reattivo ad un codice morale più primitivo. Nella nostra cultura dominata dal senso di colpa, si hanno non soltanto regressioni individuali verso primitivi sensi di colpa e di espiazione, ma anche ritorni reattivi al contenuto ed alla forma di principi di comportamento più antichi e più rigidi. Laddove lo stato socioeconomico di un gruppo è in pericolo, l'implicito codice morale diviene più ristretto, più magico, più esclusivo e più intollerante, quasi che un pericolo esterno dovesse essere trattato come uno interiore.

Attraverso altri casi clinici l'autore può giungere a generalizzare che l'inconscia identità cattiva, quella a cui l'ego ha più paura di rassomigliare, spesso si compone delle immagini del corpo violato (castrato), del gruppo etnico esterno e della minoranza sfruttata. Questa associazione è generale, in uomini e donne, in maggioranze e minoranze e in tutte le classi di una determinata unità nazionale o culturale. L'ego, infatti, durante i suoi sforzi di sintesi, tenta di raggruppare i più potenti prototipi ideali e cattivi (come chi dicesse gli avversari finali) e con essi tutta la serie di immagini superiore e inferiore, bene e male, maschile e femminile, libero e schiavo, potente e impotente, bello e brutto, bianco e nero, alto e basso in un'unica semplice alternativa, allo scopo di tirar fuori una sola battaglia ed una sola strategia da una spaventosa quantità di scaramucce.

Di qui Erikson prende le mosse per portare, da fedele freudiano, una stoccata a Jung. Egli infatti comincia col dire che le inconsce associazioni di prototipi etnici di bene e male con quelli morali e sessuali sono parte necessaria di qualsiasi formazione di gruppo. Gli studi psicoanalitici su tutto ciò portano alla conoscenza degli inconsci elementi concomitanti del pregiudizio di gruppi. Ma nell'elenco dei prototipi ideali e cattivi dei nostri pazienti, dice testualmente l'autore, probabilmente ci troviamo anche faccia a faccia con fatti clinici sui quali Jung fondava la sua teoria di prototipi ereditari ("archetipi").

La discussa teoria di Jung ci ricorda, tra parentesi, il fatto fondamentale che le controversie concettuali possono gettar luce sui problemi d’identità dell'osservatore, specialmente nelle fasi iniziali dell'osservazione originaria. Jung, a quel che sembra, riusciva a trovare un senso psicoanalitico soltanto mediante una giustapposizione dello spazio tempo religioso e mistico dei suoi antenati su quello che egli intuiva nell’eredità ebraica di Freud. La sua ribellione scientifica così provocò anche una certa regressione ideologica ed in prosieguo di tempo alcuni atti politici reazionari (debolmente smentiti).

Questo fenomeno aveva il suo contrapposto nella reazione a quanto percepiva all'interno del movimento psicoanalitico. Quasi temessero di mettere in pericolo una identità comune di gruppo basata sull’identificazione con la grandezza personale di Freud, gli osservatori psicoanalitici preferirono ignorare non solo gli eccessi di Jung, ma anche il tipo di fatto universale che egli aveva effettivamente osservato.

I concetti di "anima” e "animus”, cioè il complesso di immagini rappresentative della "parte" femminile dell'uomo e maschile della donna, sono certamente riconoscibili nelle immagini caricaturali di mascolinità e femminilità tracciate da pazienti donne ed anche nel loro più genuino insieme di immagini. La funzione sintetizzante dell'ego si sforza costantemente di classificare, in un numero sempre minore di immagini e di "Gestalten" personificate, i frammenti e gli elementi incompleti di ogni identificazione infantile. Cosi facendo, essa non si serve soltanto di prototipi storici già esistenti, impiega anche meccanismi di condensazione e rappresentazione pittorica che caratterizzano i prodotti di un’immaginazione collettiva. Nella persona di Jung sembra che un debole ego si sottometta ad un prototipo sociale irresistibile. Si stabilisce una fittizia identità dell'ego che sopprime, anziché sintetizzare, quelle esperienze e quelle funzioni che minacciano il "fronte". Un prototipo dominante di mascolinità, ad esempio, costringe un uomo ad escludere dall’identità del suo ego tutto ciò che caratterizza l'immagine cattiva del sesso inferiore, cioè del castrato. Per conseguenza; buona parte della sua progressione recettiva e materna potrebbe rimanere dissimulata, non sviluppata e oberata dal senso di colpa, riducendo quello che resta ad un guscio di mascolinità.

Nel 3° capitolo "Il ciclo vitale: epigenesi dell’identità", l'Autore riparte dalle primissime fasi dello sviluppo psico emotivo dell'essere umano e usa il termine "fiducia", differenziandosi da T. Benedek che usa il termine "confidenza" per descrivere più appropriatamente il presupposto per una corretta evoluzione. Fiducia negli altri fiducia in se stessi. Dice Erikson: “la fiducia fondamentale è una delle pietre angolari della personalità vitale”.

Quindi, ripetendo il concetto per cui la simbiosi è riferita soltanto alla vita fetale, l'Autore descrive l'estendersi della recettività dell’incorporare per mezzo della bocca, all'uso degli occhi, poi degli altri sensi e delle mani tramite la prensione. Arrivando alla conclusione, all'effetto apicale di questo percorso, quando tutto fila nel verso tutto sommato giusto: “.. imparando a convincere l'altro a fare per lui quello che vuole sia fatto, il bambino sviluppa anche il punto di partenza necessario per "diventare" lui il datore cioè per identificarsi con la madre e diventare in seguito una persona che dà”.

Quindi Erikson parla del 2° stadio della fase orale, nel quale si stabiliscono modelli interpersonali che rientrano nella modalità sociale del "prendere e conservare" le cose. Nel mondo interno aumenta la consapevolezza di sé e nel mondo esterno si assiste ad un allontanamento della madre anche per un suo ritorno ad una piena intimità coniugale. Così, in questa fase il bambino può provare un senso di perdita che può anche arrivare all’espressione che sia distrutta la propria unità con la matrice materna. In condizioni aggravate, magari anche da altre circostanze, si può giungere persino ad un'acuta depressione, o, già più frequentemente ad uno stato di afflizione non grave, ma cronico, che potrebbe determinare un sottofondo depressivo per tutto il resto della vita. A questi livelli di chiara psicopatologia: “l’impressione di essere separato, abbandonato, lascia un residuo di fondamentale sfiducia. La conseguenza è la paura di "essere lasciato vuoto" o semplicemente di "essere abbandonato" o anche di “essere privo di stimoli”.

Queste paure, a loro volta, possono conferire all’oralità quell'avidità particolare che in psicoanalisi va sotto il nome di sadismo orale. Ma esiste anche un carattere orale ottimistico di chi ha imparato a considerare il dare e il prendere come la cosa più importante della vita.

L'integrazione, poi, dello stadio orale con tutti successivi stadi, si manifesta, nell'età adulta, in un insieme di fede e realismo.

Si potrebbe parlare, ad esempio, di una corroborante fede nella "buona occasione" e nelle buone intenzioni elargite dal Fato. Questa credenza, talvolta, può degenerare nel vizio del gioco o può invitare a "correre rischi" sotto forma di arbitraria provocazione del Fato, con i rischi che la cosa comporta, o, in altri, a sentire di avere il privilegio di passare avanti a tutti gli altri.

Così, il primo e più indifferenziato “senso d’identità” nasce da un incontro di fiducia reciproca e di reciproco riconoscimento.

La religione è l'istituzione che in tutta la storia dell'umanità ha sempre tentato di confermare la fiducia fondamentale. Erikson non la definisce puerile come tale, o regressivo il comportamento religioso come tale, benché per lui sia evidente nelle pratiche e nelle intenzioni una infantilizzazione su larga scala della religione organizzata. La fiducia, allora, diventa capacità di "fede", una necessità vitale per la quale l'uomo deve trovare qualche conferma istituzionale. Tutte le pratiche religiose includono una sottomissione periodica e puerile alla Forza che crea e ricrea.

Molto di più che non a proposito dello stadio orale, in quelli successivi, Erikson bada molto al versante sociale più che a quello strettamente individuale. Quindi, ad esempio, circa la fase anale, l'Autore mette a confronto diverse impostazioni culturali; nel modo di rapportarsi sia da parte dei genitori che più in generale da parte delle istituzioni nei confronti delle tensioni proprie del bambino durante la fase anale. Così, egli evidenzia l'antitesi tra culture agrarie e primitive nelle quali i genitori ignorano letteralmente il comportamento anale e dove i bambini pervengono al controllo degli sfinteri grazie ai moti di imitazione e di identificazione e la civiltà attuale sia occidentale che giapponese dove la cosa viene presa molto sul serio. Per cui l'età delle macchine ha proposto l'idea di un corpo meccanicamente addestrato, impeccabilmente addestrato, impeccabilmente funzionante, sempre pulito. Oltre a ciò, si ritiene, in modo più o meno superstizioso, che un'educazione precoce e rigorosa sia assolutamente necessaria al tipo di personalità che potrà funzionare con efficienza in modo meccanizzato, dove il tempo è moneta.

E se il controllo esterno con un'educazione troppo rigida o prematura persiste nel defraudare il bambino del suo tentativo di controllare volentieri e per sua libera scelta gli intestini ed altre sue funzioni, egli si troverà nuovamente di fronte a una doppia ribellione e a una doppia sconfitta.

Egli si troverà costretto a cercare soddisfazione e controllo per mezzo di una regressione o di una finta progressione.

Questo stadio, quindi, diviene cruciale per il rapporto tra affettuosa buona volontà e odiosa auto insistenza, tra collaborazione e ostinazione, tra auto-espressione e compulsivo autocontrollo o docile acquiescenza.

Un senso di autocontrollo senza perdita di autostima è la fonte ontogenetica di un senso di "libera volontà". Da un senso di perdita dell'autocontrollo e dall'eccesso di controllo da parte dei genitori ha origine una persistente tendenza al "dubbio" e alla "vergogna". Il suo ambiente deve appoggiarlo nel desiderio di "fare da sé" pur proteggendolo contro quel senso di essersi esposto prematuramente e scioccamente, che chiamiamo vergogna e contro quel senso secondario di sfiducia che chiamiamo dubbio: dubbio verso se stesso e dubbio verso la fermezza e perspicacia dei suoi educatori.

Il genere e la misura del senso di autonomia che i genitori sono disposti a concedere ai bambini dipendono dalla dignità e dal senso di indipendenza personale che essi stessi traggono dalla propria vita. Il senso di fiducia del bambino è un riflesso della fiducia dei genitori. Similmente, il senso di autonomia è un riflesso della dignità dei genitori come esseri autonomi.

Attraversando, poi, la fase fallico edipica, altri sono i pericoli per lo sviluppo dell'identità. Se il bambino eccessivamente conformista accetta il lavoro come unico criterio di validità, sacrificando troppo facilmente fantasia e voglia di giocare, potrebbe essere indotto a sottomettersi a quello che Marx chiamava "idiozia del mestiere", cioè a diventare schiavo della sua tecnologia e della sua dominante tipologia di ruoli.

Più tardi, negli ultimi anni di scuola, alle prese con la rivoluzione fisiologica della maturazione genitale e con l’incertezza del ruolo che li aspetta nella vita futura, sembrano molto occupati ad istituire con bizzarri esperimenti una specie di subcultura adolescenziale, facendola sembrare una formazione d'identità definitiva, anziché transitoria o, in effetti, iniziale.

L’amore dell'adolescente è in gran parte lo sforzo di arrivare alla definizione dell’identità proiettando la propria auto immagine ingrandita su di un’altra persona, osservandola poi così riflessa e a poco a poco chiarita.

Per altri versi, per non perdersi nel cinismo o nell'apatia, i giovani devono in qualche modo riuscire a convincersi che coloro che hanno successo nel mondo degli adulti che li attende, hanno per ciò stesso il dovere di essere i migliori.

L'adolescenza diventa perciò un elemento rigeneratore nel processo dell’evoluzione sociale, perché la gioventù può offrire la propria lealtà e le proprie energie tanto alla conservazione di ciò che continua ad apparire vero, quanto alla correzione rivoluzionaria di ciò che ha perduto il suo significato rigeneratore.

In fase avanzata dell'adolescenza e anche dopo, possono presentarsi delle "crisi" che rimettono in discussione le basi dell'identità.

La prima di queste crisi è definita da Erikson dell’“intimità”. Per cui la vera intimità è possibile solo quando la formazione dell'identità è ben avviata. L'intimità sessuale spesso precede la capacità di sviluppare una vera e reciproca intimità psicosociale con un'altra persona sia in amicizia, sia in incontri erotici, sia in un congiunto fervore.

Il giovane che non è sicuro della sua identità rifugge dall'intimità interpersonale e si lascia andare ad atti d'intimità "promiscui", senza vera fusione e senza reale auto abbandono.

La contropartita dell’intimità è il "distanziamento": la tendenza, cioè, a ripudiare, isolare e, se necessario, distruggere quelle forze e quelle persone che sembrano pericolose.

Inoltre, l'Autore tiene ad accennare ad alcuni attributi dello stato d'animo di "integrità". Uno di questi è l'accresciuta certezza della propria inclinazione per l'ordine e la pienezza di contenuto della vita. E, poi, l'accettazione del proprio irripetibile ciclo vitale, nonché delle persone che in esso hanno assunto un significato come qualche cosa che doveva necessariamente essere e che quindi non ammette sostituzione. Implica anche un nuovo modo e diverso di amare i propri genitori, senza più il desiderio di averli diversi e l'accettazione del fatto che uno è responsabile della propria vita.

L'osservazione clinica e antropologica dimostra che la carenza o la perdita di questa accresciuta integrità dell'ego si rispecchia nel "disgusto" e nella “disperazione”: il destino non viene accettato come un quadro entro cui svolgere la propria vita, la morte non è accettata come il suo termine ultimo. La disperazione esprime la sensazione che il tempo è breve, troppo breve per tentare di iniziare un'altra vita e di sperimentare nuove vie per il raggiungimento dell'integrità. Questa disperazione è spesso celata dietro un manto di disgusto ed una critica che, se non sono accompagnati dalla visione di una vita superiore, denotano soltanto il disprezzo dell'individuo per se stesso.

In una significativa vecchiaia, invece, la forza si estrinseca nell'interesse distaccato eppure attivo per la vita conclusa dalla morte, che noi chiamiamo "saggezza" nelle sue molteplici accezioni, dall'intelligenza matura al cumulo di conoscenze, al giudizio spassionato, alla larga comprensione.

Così, quale che sia l'abisso in cui l'uomo possa essere attratto dagli ultimi problemi, come creatura psicosociale, egli dovrà affrontare, verso la fine della vita, una nuova edizione della crisi d’identità.

La forza psicosociale, in conclusione, dipende da un processo totale che regola simultaneamente i cicli della vita individuale, il succedersi delle generazioni e la struttura della società; tutti e tre infatti si sono evoluti insieme.

Erikson chiama "moratoria psicosociale" la fase avanzata dell'adolescenza, nella quale il giovane ha bisogno di essere "riconosciuto" da chi gli sta attorno. Egli deve ottenere un responso per la formazione della sua identità e che gli siano dati funzione e status come persona la cui crescita e graduale trasformazione significhino qualche cosa per coloro che cominciano a contare su di lui.

La moratoria è un periodo di attesa concesso a chi non è pronto a far fronte ad un obbligo. Vuol dire un indugio nell'assumere impegni da adulto. E' un periodo caratterizzato da una permissività selettiva da parte della società. E il giovane può rendersi conto molto più tardi che quello che egli aveva preso cosi sul serio era soltanto un periodo di transizione. Molti delinquenti “recuperati", molto spesso si sentono assolutamente estranei al periodo di "sciocchezza" ormai superato.

E' chiaro comunque che qualsiasi sperimentazione con immagini d’identità significa anche scherzare col fuoco interiore delle emozioni e degli impulsi, esponendosi al pericolo esterno di finire in una "sacca" sociale dalla quale non si torna indietro. Allora la moratoria è fallita: l'individuo ha assunto troppo presto la forma definitiva e si è condannato perché lo hanno condannato le circostanze, o addirittura le autorità.

Dal punto di vista sia linguistico sia psicologico, identità e identificazione hanno radici comuni. Nessuna delle identificazioni infantili potrebbero, se soltanto addizionate, dar vita a una personalità funzionante, l'identificazione come meccanismo è di un’utilità limitata.

I bambini in diversi stadi di sviluppo s'identificano con determinati aspetti parziali delle persone da cui sono più direttamente influenzati, nella realtà o nella fantasia.

Qui Erikson traccia lo schema psicosociale considerando l’introiezione, l'identificazione e la formazione dell’identità.

1) Il meccanismo dell'"introiezione" dipende, per la sua integrazione, dalla soddisfacente reciprocità tra l'adulto e il bambino. Questa iniziale reciprocità offre un polo sicuro di autoconsapevolezza da cui il bambino può tentare di raggiungere l’altro polo: i primi "oggetti" del suo amore.

2) Il destino delle "identificazioni" infantili, a sua volta, dipende dalla soddisfacente interazione con rappresentanti fidati della significativa gerarchia di ruoli rappresentata dalle generazioni che vivono insieme in un nucleo familiare.

3) La "formazione dell’identità" comincia dove termina l'utilità dell'identificazione e nasce dal ripudio selettivo e dalla reciproca assimilazione delle identificazioni infantile e dal loro assorbimento in una nuova configurazione.

La comunità, dal canto suo, si sente "riconosciuta" dall'individuo che chiede riconoscimento, mentre, al contrario, si sente offesa talvolta con sentimenti di vendetta dall'individuo che sembra non curarsi di lei.

Se il giovane è "riconoscente" in un momento critico come uno che arreca fastidio e disagio, la comunità talvolta sembra suggerirgli un cambiamento, che per lui non rappresenta nulla di “connaturato a se stesso”.

A questo punto Erikson introduce una serie di considerazioni che verranno poi sviluppate da altri Autori tanto da portare ad una serie di concettualizzazioni che oggi noi utilizziamo nelle psicoterapie e che concernono la conoscenza delle diverse parti che compongono la personalità, spesso semplificate e livello d'interpretazione in "parte grande" e "parte piccola".

Dice Erikson: durante tutta l’infanzia hanno luogo tentativi di cristallizzazione dell'identità che fanno sentire e credere all'individuo (per cominciare dall'aspetto più cosciente della questione) di aver sempre saputo approssimativamente chi fosse salvo poi scoprire che questa certezza è continuamente messa in forse dalla discontinuità dello stesso sviluppo. Tutto parte dalla differenza tra quello che l'ambiente pretende da un bambino piccolo e quello che invece vuole da un ragazzo grande. Questi si domanderà perché prima gli si faceva credere che essere piccino fosse una cosa meravigliosa, salvo poi essere costretto a barattare la facile esistenza di prima con gli obblighi speciali impostigli ora che è "grande".

Queste discontinuità possono provocare una crisi e richiedere una decisiva ristrutturazione strategica, con i relativi compromessi, che possono essere compensati solo da un senso sempre accresciuto dell'abilità e fattibilità di quegli aumentati impegni. Il ragazzino che contiene in sé le due parti deve essere messo in grado di combinare le due scale di valori in una identità riconosciuta che gli permetta, nel gioco e al lavoro, nel comportamento in pubblico e nell'intimità, di essere (e lasciare che gli altri siano) una combinazione di ragazzino piccolo e ragazzo grande...

L'identità finale, quindi, elabora le varie fasi d'identificazione significative, ma anche le altera in modo da farne un complesso unico e possibilmente coerente.

Secondo Erikson, le fasi critiche della vita sono state descritte in psicoanalisi anzitutto in termini di istinti e difese, cioè come “tipiche situazioni di pericolo”. La psicoanalisi si è così preoccupata dell'influenza di crisi psicosessuali sulle funzioni psicosociali (e altre) più che della crisi specifica provocata dalla maturazione di ogni funzione.

La funzione dell'ego è quella di integrare gli aspetti psicosessuali e psicosociali ad un dato livello di sviluppo ed al tempo stesso di integrare il rapporto di nuovi elementi di identità con altri già esistenti, in altre parole di superare le inevitabili discontinuità tra i diversi gradi di sviluppo della personalità. Le precedenti cristallizzazioni dell’identità possono infatti essere soggette a nuovi conflitti, quando i cambiamenti nella qualità e nel grado di vigoria, l'allargamento degli orizzonti mentali e le nuove e spesso conflittuali esigenze sociali fanno apparire insufficienti gli adattamenti operati in precedenza e, in effetti, rendono sospette le occasioni e le ricompense di prima. Eppure queste crisi normative di sviluppo differiscono da crisi imposte, traumatiche e neurotiche in quanto lo stesso processo di crescenza fornisce nuove energie, mentre la società offre nuove e specifiche occasioni, a seconda della concezione delle fasi vitali. Da un punto di vista genetico, quindi, il processo di formazione dell’identità emerge come una configurazione in via di trasformazione, configurazione che viene a poco a poco stabilita dalle successive sintesi e resintesi dell'ego durante tutta l’infanzia.

E' una configurazione che gradualmente integra dati costituzionali, esigenze libidiche idiosincrasiche, capacità preferite, identificazioni significative, difese efficaci, sublimazioni ben riuscite e ruoli consistenti.

La rimozione definitiva di tutti gli elementi di identità convergenti alla fine dell'infanzia (e l'abbandono di quelle divergenti) è un compito formidabile: come si può aver fiducia che uno stadio così "anormale" come l'adolescenza riesca a effettuarlo? Esiste una notevole somiglianza tra "sintomi" ed episodi adolescenziali e sintomi ed episodi nevrotici, ma l'adolescenza non è una malattia, ma una crisi normativa, cioè una fase normale di intensificato conflitto caratterizzato da un'apparente fluttuazione della forza dell'ego oltre che da un forte potenziale di crescita. Le crisi nevrotiche e psicotiche manifestano una certa inclinazione ad autoperpetuarsi, un eccessivo spreco di energia difensiva, un aggravato isolamento psicosociale; le crisi normative invece sono relativamente reversibili, o meglio valicabili, e sono caratterizzate da un'abbondanza di energia disponibile, che è vero risveglia ansie sopite e suscita nuovi conflitti, ma incoraggia anche nuove e più estese funzioni dell'ego nella ricerca e nella spensierata accettazione di nuovi impegni e nuove associazioni. Quello che ad un esame preconcetto può sembrare un principio di nevrosi, spesso non è se non una crisi aggravata, che potrebbe liquidarsi da sé, se non contribuisce addirittura al processo di formazione dell’identità.

Che le capacità recentemente acquisite di un adolescente siano o meno ricondotte verso un conflitto infantile dipende in buona parte dalla natura delle occasioni e dei compensi offerti dal gruppo dei suoi simili, nonché dei modi più favorevoli con i quali la società incoraggia la transizione dal gioco sociale alla sperimentazione nel lavoro e dai riti transitori agli impegni definitivi, tutte cose che debbono essere fondate su un implicito contratto tra l'individuo e la società. Questo vuol dire aver coscienza dell’identità? A volte, l'individuo ne è anche troppo conscio, perché, trovandosi ancora in fase di sperimentazione, nella doppia morsa di una necessità vitale interiore e di una inesorabile richiesta esterna, egli può cadere vittima di una transitoria estrema consapevolezza d’identità, che è al centro di molte forme di "autocoscienza" tipiche della gioventù.

Quando i processi di formazione della identità sono particolarmente prolungati, si manifesta anche la preoccupazione dell'"autoimmagine".

Nello scritto su Adolf Hitler abbiamo detto che una delle caratteristiche ricorrenti nell'anamnesi dei grandi geni della storia è proprio un processo di formazione dell'identità molto prolungato. Anche Erikson è d’accordo che tutto ciò può portare ad una accresciuta creatività.

Quindi l'autore sostiene che tutti noi siamo maggiormente consapevoli della nostra identità nel momento in cui stiamo per acquistarla e ci sentiamo sorpresi di farne la conoscenza. Oppure diventiamo consapevoli nel momento in cui stiamo per entrare in crisi e sentiamo l'impatto di una confusione d’identità.

Un senso ottimale d’identità si prova come senso di benessere psicosociale. Gli ovvi fattori concomitanti sono quelli di sentirsi a posto nel proprio corpo, di sapere "dove si va” e di avere l'intima sicurezza di essere riconosciuti in avvenire da coloro che contano.

Uno stato di consunzione acuta d'identità si manifesta generalmente quando il giovane si trova esposto ad un complesso di esperienze che esigono al tempo stesso un vincolo d’intimità fisica (non sempre apertamente sessuale), le scelte di un'occupazione, un’energica competitività e un'autodefinizione psicosociale. Che la tensione causata da tutto ciò provochi o meno la paralisi è un fatto che dipende soprattutto dall’attrazione regressiva esercitata da una malattia latente. La funzione sociale dello stato di paralisi che ne consegue consiste nel mantenere al minimo le possibilità di scelta e di impegno.

Il tentativo di annodare un’intima amicizia o dl entrare in intimità sessuale può rilevare in pieno la debolezza latente dell’identità.

"Impegnarsi" a fondo con altri è il risultato e il banco di prova di una precisa auto programmazione. In queste situazioni il giovane può provare una strana tensione, quasiché questi legami sperimentali potessero tramutarsi in una fusione interpersonale equivalente a una perdita di identità. Quando il giovane non riesce a risolvere questa tensione, può succedere che si isoli e annodi relazioni interpersonali soltanto stereotipate e formali oppure che, dopo ripetuti affannosi tentativi e dolorosi fallimenti, cerchi intimità con le persone meno adatte. Infatti, dove manca un sicuro senso d’identità, perfino le amicizie e gli affari di cuore si trasformano in disperati tentativi di delineare i confini nebulosi d’identità attraverso una reciproca contemplazione narcisistica: innamorarsi allora spesso significa picchiare contro la propria immagine nello specchio, facendo male a se stessi e danneggiando lo specchio. Incombe il pericolo del collasso improvviso di qualsiasi capacità di comprensione reciproca e ne consegue un desiderio disperato di ricominciare tutto da capo, con una (quasi voluta) regressione verso uno stadio di fondamentale confusione e di rabbia, quale si manifesta soltanto in bambini molto piccoli.

Il contrapposto dell’intimità è il distanziamento, cioè la voglia di ripudiare, ignorare o distruggere quelle forze e quelle persone la cui essenza appare pericolosa per noi stessi.

Questi giovani spesso manifestano in modo abbastanza patetico la sensazione che potranno trovare salvamento soltanto nella fusione con un "leader", cioè con un adulto capace e volenteroso di offrirsi come oggetto a cui ci si possa sperimentalmente arrendere e come guida nel riapprendimento dei primi passi sulla via di un'intima reciprocità e di un legittimo rifiuto.

In casi estremi di adolescenza ritardata e prolungata compare un disturbo nell'esperienza del tempo: un senso di urgenza accompagnato dal rifiuto di considerare il tempo come una dimensione della vita. Il giovane può sentirsi al tempo stesso molto giovane, o magari appena nato e vecchissimo. Egli può negare che il tempo finisca per apportare un cambiamento e dall'altra parte una gran paura che il cambiamento si produca.

Può anche comparire il "desiderio di morire" che è un desiderio veramente suicida soltanto in quei rari casi in cui "essere suicida" diventa un'ineluttabile scelta d’identità.

Una grave confusione d’identità è generalmente accompagnata dal pronunciato turbamento nell'attitudine al lavoro, che si manifesta sia come impossibilità di concentrarsi su compiti richiesti o suggeriti, sia come preoccupazione autodistruttrice riguardante una particolare attività, come sarebbe il leggere eccessivo.

Le finalità del lavoro, infatti, non solo favoriscono e sfruttano la soppressione degli obiettivi istintuali, ma intensificano il funzionamento dell'ego, offrendo attività costruttiva con veri e propri strumenti e materiali nel quadro di una realtà comunitaria. La perdita del senso identità si esprime spesso in una sprezzante e snobistica ostilità nei confronti dei ruoli presentati come opportuni e desiderabili dalla famiglia o dell'immediata comunità. E' frequente una irrazionale ammirazione per tutto ciò che è straniero. Sembra che vita e vigoria esistano soltanto dove non si è, mentre decadenza e pericolo siano in agguato dove ci si trova.

In generale, i conflitti dei nostri pazienti, dice ancora Erikson, si esprimono in modo più sottile che non con l'annullamento dell’identità personale. Essi ricercano invece una "identità negativa", cioè identità perversamente fondata su tutte quelle identificazioni e quei ruoli che, in certi stadi critici di sviluppo, erano stati loro presentati come indesiderabili o pericolosi, eppure molto reali. E qui l'autore elenca una serie di casi clinici esemplificativi di questo concetto (pag. 205).

Delle scelte vendicative di identità negativa rappresentano un disperato tentativo di riprendere in mano una situazione in cui gli elementi disponibili di identità positiva si eludono a vicenda.

La storia di questa scelta rivela un complesso di circostanze in cui è più facile per il paziente trarre un senso d’identità dalla totale identificazione con ciò che egli non dovrebbe assolutamente essere piuttosto che lottare per conquistare un sentimento di realtà in ruoli accettabili ma irraggiungibili con i suoi mezzi interiori.

Vanno citate anche alcune forme di snobismo delle alte classi sociali perché permettono a certi individui di negare la propria confusione di identità ricorrendo a qualche cosa che non si sono guadagnati loro, come la ricchezza dei genitori, la tradizione familiare, la fama, oppure qualche cosa che non hanno creato loro, come stili o forme d’arte, ma esiste anche uno snobismo di tipo "più terra terra", fondato sull'orgoglio di avere raggiunto una specie di nullità. Certo è che molti adolescenti non giovanissimi, ammalati o disperati, trovandosi di fronte a un persistente conflitto, preferirebbero essere nessuno, o qualcuno di totalmente cattivo o magari morto, piuttosto che essere un quasi qualcuno.

Calandosi nelle dinamiche psichiche dei componenti della famiglia, Erikson traccia l'identikit di alcune madri che amano, ma in modo disperato e invadente. Sono loro stesse tanto bisognose di approvazione e riconoscimento, che opprimono i bambini con intricate lamentele, generalmente riguardanti il padre quasi supplicando i bambini di giustificare l'esistenza della madre attraverso di loro.

Tanti padri, invece, pur essendo magari uomini di successo ed eminenti nel loro campo, non tengono testa alle mogli in casa, perché dipendono troppo da loro e per conseguenza, questi padri sono profondamente gelosi dei figli. Quel tanto d’iniziativa e d’integrità che posseggono o si arrende all'invadenza della moglie o, sentendosi in colpa, tenta di eluderla. Per conseguenza la madre diventa sempre più bisognosa di cure, lamentosa e "vittimistica" in tutto ciò che pretende da tutti i suoi figli o da alcuni di essi.

Parlando dei figli di tante coppie, giunti a consultare l'analista, l'Autore nota e verbalizza chiaramente la connotazione simbiotica di questi ragazzi. A causa di una precoce smania d'identità, i pazienti facilmente si attaccano a un fratello o ad una sorella in modo simile al comportamento tra gemelli, con la differenza che qui abbiamo un gemello per così dire, che tenta di trattare un non gemello come un gemello. Sembrano arrendersi ad una totale identificazione con almeno un fratello in modo che va molto oltre "l'altruismo da identificazione", descritto da Anna Freud. Sarebbe come se uno dei nostri pazienti affidasse la propria identità a quella di un fratello o di una sorella nella speranza di riguadagnarne una maggiore o migliore da un qualche processo di fusione. Per un certo periodo ci riescono, ma poi la delusione che per forza segue il collasso dell'artificiale gemellaggio, è tanto più traumatico. Rabbia e paralisi accompagnano l'improvviso "insight", possibile anche in un autentico gemello, che l'identità disponibile basta per uno solo dei due e che l'altro dev'essere scappato portandosela via.

Mettendo poi in relazione la confusione individuale con l'ordine sociale, Erikson valuta gli aspetti regressivi dei conflitti adolescenziali.

La questione più importante ha a che fare con la sfiducia nel tempo come tale e il predominio della "confusione temporale". La perdita della funzione, propria dell'ego, di conservare prospettive ed aspettative rappresenta una chiara regressione all'epoca della prima infanzia, quando il tempo non esisteva. L'esperienza del tempo sorge soltanto dall'adattamento del bambino a cicli iniziali di tensione provocata da un bisogno, da un ritardato soddisfacimento e da sazietà. Nel bambino, quando la tensione aumenta, il futuro soddisfacimento è previsto in modo "allucinatorio"; se il soddisfacimento è dilazionato, si hanno momenti di rabbia impotente, in cui la fiducia sembra cancellata; qualsiasi segno del prossimo soddisfacimento ridona un senso di intensa speranza, mentre un ulteriore ritardo provoca una rabbia raddoppiata. I nostri pazienti, come s'è detto, non hanno fiducia nel tempo e non sono convinti che possano aspettarsi una gratificazione che faccia valere la pena di esercitare la volontà e di "lavorare".

I giovani più fortemente regressivi sono generalmente in preda ad atteggiamenti che rappresentano una specie di sfiducia nel tempo come tale; ogni indugio appare come un inganno, ogni attesa una prova d’impotenza, ogni speranza un pericolo, ogni programma una catastrofe, ogni possibile personaggio che provveda ai loro bisogni come un potenziale traditore. Per questo bisogna arrestare il tempo, se necessario, coi mezzi magici di immobilità catatonica. Questi sono estremi che si manifestano in pochi casi, ma sono latenti in molti casi di confusione di identità ed ogni adolescente attraversa momenti, magari passeggeri, nei quali si sente in conflitto con il tempo stesso. Nella sua forma normale e transitoria, questo nuovo tipo di sfiducia cede rapidamente o gradualmente il posto ad atteggiamenti che permettono e richiedono un intenso e persino fanatico investimento nell'avvenire, od un rapido succedersi di parecchie possibili alternative in avvenire. Sono fantasie che spesso agli adulti paiono contraddittorie e comunque "utopistiche", cioè basate su aspettative che richiederebbero un cambiamento nelle leggi dello sviluppo storico. Ma il giovane, d'altra parte, si può affezionare ad immagini del mondo apparentemente utopistiche, che si dimostrino in parte realizzabili, purché siano presenti il "leader" appropriato e l'opportunità storica. La confusione temporale, dunque, è più o meno tipica di tutti gli adolescenti in un qualche stadio, benché soltanto in alcuni giovani possano assumere un aspetto patologico.

Vi sono anche e questo è un altro punto fondamentale aspetti di formazione dell'identità che preannunciano lo sviluppo futuro.

Il primo è quello che potremmo chiamare "polarizzazione delle differenze sessuali", cioè l’elaborazione di una precisa misura di mascolinità e femminilità conforme allo sviluppo dell’identità. Tanti giovani non si sentono di appartenere chiaramente all'uno o all'altro sesso e ciò li fa cadere facilmente vittime delle pressioni provenienti, ad esempio, da gruppi omosessuali, perché per alcuni è più sopportabile essere etichettato in un modo, qualunque modo, piuttosto che continuare ad essere esposto ad una prolungata confusione bisessuale.

Quindi l'Autore entra nel vivo del rapporto paziente analista e accenna alla forma universale di resistenza all'identità che si manifesta regolarmente, ma che spesso non viene riconosciuta come tale nel corso di trattamenti psicoanalitici.

La resistenza all'identità, nelle forme più leggere o più frequenti, consiste nella paura del paziente che l'analista, a causa della sua particolare personalità, della sua estrazione ambientale o dei suoi principi, possa inavvertitamente o deliberatamente distruggere il nucleo indebolito della identità del paziente, imponendogli invece la propria. Così, alcune discussissime e non risolte nevrosi da transfert tanto in pazienti quanto in candidati psicoanalisti, è il risultato diretto del fatto che la resistenza all'identità spesso non viene analizzata sistematicamente. Accade cosi che l'individuo da analizzare possa riuscire talvolta a resistere durante tutta l'analisi a qualsiasi invasione della sua identità da parte dei valori dell'analista, pure cedendogli su tutti gli altri punti. Oppure il paziente potrà assorbire dell'identità dell'analista più di quanto possa fare coi propri mezzi. O infine potrà abbandonare l'analisi con un senso, che durerà per tutta la vita, di essere stato defraudato di qualche cosa di essenziale che l'analista gli doveva.

Nei casi gravi di confusione d'identità, questa resistenza all'identità diventa il fulcro dell’incontro psicoanalitico. Questi pazienti cercano di sabotare la comunicazione fino a quando non abbia risolto alcuni problemi fondamentali, sia pure contradditori. Il paziente insiste che il terapista accetti la sua identità negativa come reale e necessaria, convinto che oltre all'identità negativa in lui "non c'è niente altro". Il terapista, di fronte a questo problema deve dimostrare pazientemente, attraverso molte gravi crisi, che può conservare comprensione ed affetto per il paziente senza divorarlo e senza offrire se stesso come pasto totemico.

Infine Erikson, ricalcando strade percorse da altri Autori, fa un breve cenno a quei pazienti nei quali gli "acting-out" rappresentano un costante pericolo, per cui bisogna ricorrere al trattamento in ambiente ospedaliero. Il trattamento individuale, allora, è soltanto un aspetto della terapia adottata e si vengono a realizzare diversi "transfert incrociati” e contro transfert per la serie di operatori che si occupano del paziente e dove l'ospedale dovrebbe diventare un facsimile della casa. Qui il rischio è che il paziente scelga proprio il ruolo di paziente come base di cristallizzazione dell'identità, perché questo ruolo potrebbe apparire più significativo di altre identità potenziali precedentemente sperimentate.
Johnson
2017-03-09 00:48:10 UTC
Se vuoi incrementare le tue probabilità di rimanere incinta velocemente puoi consultare questo metodo http://GravidanzaMiracolosa.netint.info/?J33S

Inoltre è fondamentale che tu conduca uno stile di vita salutare: devi essere al massimo della forma e un tale risultato può essere ottenuto solo tramite una dieta equilibrata e regolare esercizio fisico.
?
2008-08-12 03:22:30 UTC
Voglio vedere ke fai cn qst riassunto se poi nn capisci nnt del libro...leggilo e cercalo di capire e forse dp ti potrà tornare utile il riassunto ke ti è stato dato...
anonymous
2008-08-11 16:57:05 UTC
malllllaaata


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